L’intervista

Vaissié: «L’epidemia ci ha insegnato che gli ospedali pubblici sono fondamentali»

di Stefano Montefiori

Vaissié: «L'epidemia ci ha insegnato che gli ospedali pubblici sono fondamentali»

PARIGI - «Per fare ripartire l’attività economica bisognerà dividere la popolazione in tre fasce: gli immunizzati, che potranno tornare al lavoro senza grossi pericoli; i contagiosi, che dovranno sopportare il confinamento ancora per un po’; e il resto della popolazione, che potrebbe essere a rischio e che dovrà riprendere con attenzione e precauzioni, per esempio l’uso di massa delle mascherine». Arnaud Vaissié, 65 anni, è il cofondatore e ceo di «International SOS», la società multinazionale leader mondiale nella consulenza a imprese, Ong, Nazioni Unite e governi per quel che riguarda evacuazioni di emergenza e gestione dei rischi sanitari.

Come avete affrontato la crisi del coronavirus?

«Siamo in prima linea dall’inizio perché siamo presenti con oltre 11 mila persone in 92 Paesi. Il governo francese si è rivolto a noi quando si è trattato di evacuare i connazionali da Wuhan, in Cina, dove da 25 anni abbiamo una clinica. Il nostro medico Philippe Klein si è rifiutato di lasciare la città e ha voluto restare a Wuhan per curare i pazienti. Il governo cinese lo ha ringraziato offrendogli la residenza perpetua. Il nostro primo mercato oggi sono gli Stati Uniti, nostri clienti sono le multinazionali ma pure il Dipartimento di Stato. Ma collaboriamo anche con altri governi e con le aziende e le università di tutto il mondo, anche in Italia dove supportiamo i nostri clienti da oltre 20 anni. Il nostro mestiere consiste nell’intervenire ovunque, a qualsiasi ora e in modo efficace».

I grandi gruppi hanno bisogno di rimpatriare il loro personale?

«Sì, questa è la prima parte della nostra attività. La seconda è aiutare le aziende nella business continuity, cerchiamo di assisterle nella ripresa dell’attività produttiva».

Ogni Paese ha reagito in modo diverso.

«In realtà la maggior parte dei Paesi hanno finito per reagire nello stesso modo, solo con tempi diversi. Il paradosso di questa situazione è che la Francia sperava di essere diversa dall’Italia e il Regno Unito sperava di essere diverso rispetto alla Francia, ma alla fine misure simili sono state imposte a tutti come inevitabili».

Come mai il mondo si è fatto prendere di sorpresa?

«Credo che il precedente del 2009, con la temuta epidemia del H1N1, abbia contato molto, purtroppo. Nella nostra attività dobbiamo regolarmente affrontare le epidemie, ma il ricordo della mobilitazione precedente, con quelle colossali ordinazioni di Tamiflu poi rivelatesi inutili, ha frenato l’azione di tutti. Dopo il falso allarme del 2009 il concetto di prevenzione ne è risultato compromesso».

Una grande incognita à lo stato dell’epidemia in Africa. Qual è la sua valutazione?

«In Africa, dove abbiamo molte cliniche di proprietà, l’epidemia per adesso è meno sviluppata che altrove. Questo può dipendere dal fatto che semplicemente vengono fatti pochi test e quindi rimane sottotraccia, ma ci sono anche elementi oggettivi: l’Africa rappresenta solo l’un per cento dei voli nel mondo, quindi la propagazione del virus è meno rapida. E non aveva collegamenti diretti con Wuhan, il punto di partenza dell’epidemia».

Quali saranno le conseguenze irreversibili nelle nostre società?

«Credo che la tele-medicina rimarrà. In Francia e in altri Paesi i governi vi hanno fatto ricorso perché è un primo argine all’epidemia e protegge i medici dal contagio, e credo che gli strumenti tecnologici permettano ormai visite a distanza di ottimo livello. Anche lo smart working si sta dimostrando molto efficace, penso che molte aziende lo incentiveranno. Non credo invece che i voli spariranno. I viaggi permettono di incontrare le persone e quello è un piacere che rimarrà. Quanto alla collaborazione tra settore privato e pubblico, mi auguro che verrà sviluppata ancora di più: l’epidemia ci ha insegnato che gli ospedali pubblici sono fondamentali e quindi non devono essere sovraccaricati. La Germania sta offrendo un buon esempio di complementarità tra servizio sanitario pubblico e strutture private».

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